Il mio nuovo romanzo è fuori!
Diavolo di Via delle ortiche
Alcuni se lo trovarono faccia a faccia, altri ci parlarono e non lo riconobbero,altri ancora lo intravidero dietro la maschera di circostanza ma erano già troppo indaffarati o troppo distratti per farci davvero caso, qualcuno ci fece l’amore.
Questa storia parla della mia ultima estate da bambino e di come il diavolo sul finire dell’agosto del 74 divenne un nostro vicino di casa.
Abitavo in Via delle ortiche, uno stradone che tagliava in due la campagna per obbligarla a portarci diritto al mare. In un mondo perfetto tutte le strade dovrebbero farlo ma allora non lo sapevo e in fondo nemmeno me ne curavo. Che me ne importava a me che avevo solo undici anni. Forse è questa la cosa più incredibile- a pensarci ora- di tutti quegli accadimenti ormai lontani. E così passavo il mio tempo giovane con due amici veri e un terzo immaginario: un tipo strano e poco raccomandabile che si vestiva con una appariscente tuta da scheletro gialla. Io da grande avrei voluto essere come lui: spietato e invincibile ma i sogni sono fatti quasi tutti per essere traditi e tutti i film che ti facevi da bambino e a cui ti aggrappavi come a delle scialuppe di salvataggio ci penserà la proiezione adulta di te a farle naufragare e sarà un gioco di specchi (d’acqua) tra cabotaggio e sabotaggio.
Claudio Baglioni, Lucio Battisti e Bruce Lee. Vi vengono in mente, per quanto fossero tutti e tre a loro modo ganzi all’inverosimile, tre tipi più differenti? Eppure erano loro allora la mia Trinità, i santi a cui votarmi. Passavo giornate intere col mangianastri a sentire le loro canzoni e ad aspettare che il Cinema Mariotti programmasse nuovamente Dalla Cina con furore. Lo avevo già visto cinque volte. E poi c’era lui: il mio amico pazzoide con la sua tuta da scheletro gialla, il mio modello comportamentale, una sorta di zio, troppo lo scarto generazionale allora per considerarlo un fratello maggiore,il mio consigliere e il mio confessore, il mio Virgilio pluriomicida che mi avrebbe traghettato in quel posto così misterioso e pieno di pericoli che sarebbe stata l’età adulta. Ma andiamo con disordine e permettetemi di presentarvi attori e comprimari di questa strana e indiavolata storia.
L’uomo di gran lunga più bello di tutto il quartiere, di tutta la città e forse del mondo intero si chiamava Luca e aveva un età indefinita che poteva oscillare, a seconda dei tagli di luce o della sua disperazione ,dai trenta ai quaranta anni. Superava abbondantemente il metro e novanta, aveva spalle larghe un portamento elegante e gli occhi erano di un cielo celeste chiaro seppur appena lambito dal fumo grigio di una ciminiera. I capelli erano cortissimi e biondi come quelli di un nazista. La mascella squadrata e il naso deciso. Aveva un ascendente irresistibile su tutto il parterre femminile ma era completamente indifferente a quelle lusinghe. Quel giorno aveva appena parcheggiato la sua lambretta giallo canarino sul ciglio della strada quando si sentì chiamare alle spalle. Si girò. La vecchia Adalmina.
- Padre! Le devo raccontare una cosa gravissima.
Sembrava davvero agitata.
Don Luca le andò incontro smorzando subito un accenno di sorriso. Quando le fu vicino non poté fare a meno di notare che dall’ultima volta sovrastava la donna di quasi mezzo metro: Adalmina era davvero piccola.
-Mi dica tutto, carissima.
Lei era l’unica lì ad avere gli occhi più chiari dei suoi: sembravano due pezzi di giaccio su cui era stato versato dell’anice e a volte , se la contrariavi, quelle iridi diventavano cattive. Era pure l’unica a non subire il fascino di Don Luca, anzi tutta quella bellezza in un sacerdote la infastidiva in un modo inconscio che se anche si fosse palesato alla luce ,lei per prima non sarebbe stata in grado di spiegarsi.
Raccontò per filo e per segno che cosa le era accaduto la notte prima e il prete per quanto in alti frangenti, alcuni davvero gravi, avesse ricordato nella propria apparente imperturbabilità la forza di una quercia centenaria,ebbe un sussulto interiore, un senso di ineluttabile disastro da ammalarne quasi le radici. Durò poco ma in quel poco impallidì e non poté fare a meno di notare negli occhi della vecchia una sorta di compiacimento per la reazione procurata, un compiacimento che si accompagnava dietro ad una sincera preoccupazione.
Era una storia talmente assurda che in un altro momento non sarebbe riuscito a disinnescare l’ilarità senza farla deflagrare in faccia ma erano accadute altre cose di cui l’anziana contadina non poteva certo essere a conoscenza,ed erano stati degli accadimenti così strani, così destabilizzanti,che per paradosso puntellavano quel racconto.
Come la sera prima quando, prima di gettarsi sulla branda della canonica, guardandosi allo specchio, per un attimo non aveva riconosciuto i suoi lineamenti perfetti ma un volto grigio, scavato e devastato dagli anni. In quella faccia estranea una familiarità minacciosa che venne subito risucchiata dal vetro; poi lo specchio che invece di inorgoglirsi aveva gorgogliato si fece di un viola sempre più scuro. Poi smesso il borbottio si acquietò nero. Dalla superficie si erano staccate decine di rettangolini trasparenti a fluttuare e a danzare nell’aria, ogni tanto qualcuno di loro emanava al proprio interno una opalescenza d’un celeste o di un rosa che poi collidendo esplodeva liberando una nota musicale simile ad uno spillo.
Era rimasto così, tra l’inebetito e il rassegnato e poi si era toccato la faccia che appena rassicurata da quel contatto si era nascosta a piangere. Avvicinatosi al telefono a muro aveva composto un numero.
-Sono io,devo vederla al più presto. È successo di nuovo e ho paura che qui stiano piano piano capendo.
La voce dall’altra parte sembrava assonnata e professionale.
-Mercoledì?
-è fra due giorni..non credo di avere tutta questa autonomia.
-Prima la vedo dura, dovrei disdire delle cose..fammi controllare.
- Avevamo un accordo, una specie di patto..
- E ai patti ci sta pure il diavolo, giusto?
- Dicono così.
Appeso il ricevitore si era buttato esausto sul letto, con le molle che avevano emesso uno strano cigolio, una preghiera metallica, una supplica di ferro e ruggine destinata, come altre mille richieste notturne , scarti repentini di solitudine a tentare una fuga,a rimanere inevasa. Forse da qualche parte, appena dietro la Luna,esisteva un Dio degli insonni che veniva pregato non solo da chi aveva collezionato già troppi rimorsi ma anche da tutti gli animali notturni che se ne stavano tra le fronde e tra i cespugli e i rovi , gli occhi gialli a guardare quelle notti buie puntellate da poche stelle di ghiaccio. Un Dio con undici decimi di diottrie ma sordo.
Si era messo a contemplare il soffitto e nel soffitto aveva visto come proiettato da un fascio di luce il viso bellissimo e triste di sua madre prima che la follia e la malattia se lo portassero lontano in un posto inaccessibile. Tutti quei giorni, tutti quei bei momenti se ne erano andati per sempre, erano stati sminuzzati da quel tritacarne del tempo. Il fascio di luce proiettò i fotogrammi di un corteo funebre, facce tetre sotto un cielo di pietra, il peso del destino a gravare su quelle spalle da bambino troppo piccole. Il prete nell’orazione funebre aveva detto molte parole ma nessuna veramente di conforto , così circostanziate da apparire solo di circostanza con la bara che precipitava lentamente nella buca e non vi sembri un ossimoro anche se qui si parla di ossa e l’unica persona che lo aveva mai amato veramente se ne era andata una seconda volta e questa volta per sempre. Le immagini continuavano a scorrere velocemente, e ora un ragazzo alto e bellissimo, appoggiato ad una panchina del molo, fumava nervosamente mentre una coupé grigia nel buio gli si avvicinava e l’uomo a bordo, stempiato e sulla cinquantina, abbassava il finestrino non per esaminarlo meglio- che quella bellezza non aveva bisogno certo di nessun secondo esame più attento -ma solo per imprimere da qualche parte l’attimo sospeso tra l’eccitazione e la paura che precede ogni furtiva contrattazione. Si guardò proiettato su quel soffitto ed era così dannatamente giovane e si riconobbe a malapena. In fondo erano stati quei peccati di gioventù a portarlo fin lì ad abbracciare la fede, non è così infrequente e non vi sembri blasfemo che qualche accidentata strada delle marchette incroci in modo fortunoso una delle tante vie del Signore. A lui era successo. Una folgorazione anni prima sopra un treno. Lo stesso treno che poi lo aveva condotto fin lì. Ripensò a quello che gli aveva detto Adalmina: quelle parole così oscene e assurde gli giocarono per un po’ nella testa e sebbene non nutrisse una particolare simpatia per quella vecchia- anzi nutriva lo stesso principio di diffidenza che sapeva essere ampiamente ricambiato- non le trovò campate in aria perché mortifere e sotto traccia. “Il diavolo!” pensò ad alta voce e subito dopo un violento scroscio d’acqua del primo e unico temporale estivo si abbatté sul tetto della canonica.
-
Non ho mai avuto paura dei tuoni, nemmeno da piccolo. Ma quella notte quel rumore di cielo appallottolato come un foglio di carta, quello stridore di stelle, mi tenne sveglio. Dividevo la camera con mia sorella maggiore allora. Lei aveva il sonno veramente profondo e non si svegliò nemmeno quando un tuono sembrò essere entrato nella stanza a scuotere i letti e mi alzai per la seconda volta a guardare dalla finestra. Tutti i campi erano schiacciati dalla notte, un nero orbato e profondo a perdita d’occhio che si illuminava di una elettricità malevola e squarciata programmata ogni dieci secondi. Fu al terzo lampo circa che urlai di terrore. Antonella si destò come riportata nel mondo dei vivi da un defibrillatore e spaventata dal mio grido belluino si tirò su e con gli occhi ancora chiusi urlò ancora più forte. Sentii i miei genitori scaraventarsi giù dalla stanza vicino e precipitarsi allarmati da noi. Mi trovarono impietrito e bianco come un lenzuolo indicare un punto imprecisato fuori dalla finestra di quell’orizzonte tornato completamente nero. Il presunto colpevole per quello che a lungo- e a torto- fu considerata una commistione tra la fine di un incubo e un principio di sonnambulismo fu il mio amico con la sua stilosissima tuta da scheletro gialla e alla cattiva influenza che le sue avventure settimanali avevano su di me. Lui era il colpevole designato per via dei suoi rapimenti, delle sue rapine e dei suoi plurimi omicidi, comportamenti che agli occhi prevenuti dei miei potevano apparire a volte leggermente discutibili e poco edificanti ma vi posso assicurare che le cose non stavano affatto così. Io imputai invece quello spavento ad un altro responsabile più subdolo e temibile: tutto quel catechismo preso a tradimento fin da bambino che secondo me mi aveva innescato un profondo senso di colpa materializzatosi per una frazione di secondo in qualcosa di nitido, rosso e profondamente spaventoso. Un diavolo che se ne stava immobile in mezzo a quella tempesta con in mano un ombrello!
Naturalmente ciò che vidi davvero lo tenni per me- ne parlai infatti solo con K. e poi con Federico- ma quella visione devo confessarvi che tornò più di una volta a far capolino nei miei incubi notturni e ringrazio Dio del fatto che allora, in quelle case rimaste contadine,non fosse minimamente contemplata l’eventualità di mandare i propri figli da qualche psicologo e fu quella ritrosia dovuta ad una certa diffidenza unita ad un senso del pudore e del risparmio che mi concesse negli anni a venire di potermi adagiare sul mio disagio : adattando la mia figura a quel substrato livido e accidentato riuscii col tempo a rendermelo quasi confortevole.
Due.
A parte il campo immenso di granturco e qualche canneto- che comunque aggiravamo con le nostre biciclette- quasi nulla si frapponeva fra noi e le nostre destinazioni. Non esisteva nessun recinto, nessuna rete, e per uno strano cortocircuito temporale è quel passato che oggi mi appare fantascienza. I campi non avevano bisogno di essere delimitati da fili metallici o cartelli di proprietà: le zucche e le barbabietole crescevano al sole e libere , gli unici deterrenti ad appropriazioni indebite erano i forconi e i badili che se ne stavano appoggiati nei fienili. Sto parlando naturalmente di quel microcosmo che allora mi appariva come il mondo intero quindi certe durezze andranno prese con le molle così come certe asprezze saranno mitigate da quell’aspartame del ricordo.
Mi ricordo di te cane Duca, delle tua strabordante vitalità e di come correvi dentro quella imitazione di jungla che era il giardino di casa, ti lanciavi in mezzo a quell’erba altissima venendone completamente sopraffatto, sparivi dal nostro raggio visivo per emergere solo molti metri più in là. E noi ti sentivamo scuoterti in abbai furiosi verso qualcosa di minaccioso, un nemico strisciante che riuscivi a vedere soltanto tu. Mi accompagnavi per un po’ tra quei vitigni contorti, saltavamo due gore e poi prima che arrivassimo a quell’immenso campo di granturco che era il sipario che si apriva su quello spettacolo della casa di Federico giravi la coda e te ne tornavi indietro. Allora non capivo perché non ti volessi inoltrare lì dentro: Federico ti piaceva- piaceva a tutti-ma quelle spighe rimasero per quei veloci anni le tue colonne di Ercole:il tuo mondo di cane esploratore finiva prudentemente lì. Scoprii solo dopo il perché.
Quando spuntai dal campo di granturco Federico smise di lavorare sul suo skateboard e mi salutò come se non me ne fossi mai andato via.
-Ehi, sagoma.
Lui mi salutava così. Gli altri mi chiamavano Ferro oppure Gesuita e il secondo soprannome non è che mi facesse impazzire molto ma lo subivo sapendo che in sorte mi sarebbe potuto toccare molto di peggio. Come era successo ad esempio a Franchino lo zingaro che era un tipo con la passione per la sottrazione indebita o ad orecchie di porco e denti a castoro che era un ragazzino con la faccia sempre triste; io quella tristezza la imputavo al fatto che fosse l’unico lì ad avere un soprannome composito. Non ti puoi nemmeno schernire,non ti puoi rifugiare in un atteggiamento composto quando il tuo soprannome così composto ti inchioda al tuo scherno. Io a mia discolpa posso dire che in faccia così non lo chiamai mai e nemmeno Fede. Questione di sensibilità ma anche dovuta al fatto che non avessimo poi tutta questa voglia o necessità di chiamarlo. Io e Federico ci conoscevamo da sempre, da appena nati, prelevati di peso dal morbido niente dove stavamo e messi lì a due case di distanza; eravamo entrambi biondi e con gli occhi verdi e qualcuno non particolarmente sveglio avrebbe potuto scambiarci pure per fratelli ma lui differiva da me per una grazia maggiore: quella luce particolare- che nella vita ho riscontrato altre poche altre volte e in un numero così esiguo di esseri umani- lo illuminava in pieno mentre a me era toccata solo di tre quarti. Ogni tanto però pure lui si rabbuiava: il suo viso assumeva un aspetto pensoso ed inaccessibile per pochi istanti e poi tornava fedele a se stesso dopo essere stato tradito da qualche pensiero.
- Ti piace? – Mi chiese girando verso di me lo skate. Lo aveva dipinto di un bel blu elettrico.
-Bello- risposi calibrando il mio entusiasmo. Era una tecnica che avevo imparato da poco osservando le persone che usavano smodatamente le iperboli: mi sembravano quasi sempre insincere e qualche volta stupide.
-Tieni, è tuo, te lo regalo. questa è la volta buona che impari a salirci sopra e un giorno potremo pure sfidarci.
- No, è troppo. Non lo voglio e poi è tuo…
- Ne ho un altro in garage.
Sparì un secondo e tornò con in mano un altro color legno e con almeno sei strati di copale.
Anche in questo eravamo diversi: lui era più orientato verso l’America che a quel tempo per tutti noi era sinonimo di modernità e di progresso- era stato pure il primo in tutta la strada ad avere un vero frisbee mentre io usavo ancora il coperchio di cartone dei fustini del dixan ; la mia bussola interiore era più orientata verso la Cina per via della passione smodata che nutrivo allora per i film di arti marziali. Li vedevo tutti al cinema Mazzini e sebbene su questo argomento dovrò tornarci ai fini di questa diabolica storia vi devo anticipare perché quel cinema così improbabile quando sparì continuò nei decenni a proiettare il suo fascio di luce nella sala buia del mio inconscio diventando alla fine uno dei miei luoghi dell’anima.